È stata il feudo e il rifugio di Bernardo Provenzano. Pochi si aspettavano che proprio a Bagheria, dove tonnellate di cemento abusivo hanno coperto nel silenzio agrumeti e ville nobiliari, potesse partire una nuova rivolta contro il pizzo. Il primo commerciante ha parlato, lo hanno seguito altri trentacinque tra negozianti e imprenditori. Uno dopo l’altro. A raccontare di estorsioni andate avanti per decenni, cominciate con la lira (tre milioni al mese) e traghettate nell’epoca dell’euro. Un imprenditore pagava dall’inizio degli Anni Novanta: ha detto di avere dovuto chiudere l’attività e vendere la casa. A finire in carcere sono stati 22 presunti estortori, con un’operazione portata avanti dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia. Fondamentali per ricostruire gli assetti dei clan sono state le dichiarazioni di un pentito, Sergio Lamia. Ha scoperchiato lui la pentola della cittadina dei paradossi. La cittadina patria di intellettuali, artisti e scrittori (Guttuso, Tornatore, Dacia Maraini, Ignazio Buttitta), la cittadina culla della buona tavola, la cittadina che – quando è caduto il sindaco due anni fa, sfiduciato dal consiglio comunale – era il Comune più indebitato d’Italia. Bagheria apparentemente immutabile ma ora amministrata da un sindaco Cinquestelle. Bagheria dove un tessuto commerciale un tempo florido conviveva, da sempre, con il ricatto di boss e gregari. Un silenzio che ora si rompe, con un’operazione che gli inquirenti definiscono storia. Gli arrestati sono, a vario titolo, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, sequestro di persona e danneggiamento a seguito di incendio. Negozi di mobili e di abbigliamento, attività all’ingrosso di frutta e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse: niente sfuggiva alle tariffe del racket. Che l’anno scorso aveva preso di mira anche il cimitero: decine di bare accatastate, altre bruciate per punire il titolare di un’agenzia di servizi funerari.