Ho molto da dire, ma lo lascio a te. Lo lascio a quelli che meglio di me hanno la capacità di elaborare il proprio scontento, i fatti per sostanziarlo e la pazienza di dibattere dell’impossibile deprogrammazione dei proprietari delle piantagioni, dei loro operai e dei loro schiavi. Gli schiavi nati nel proprio mondo, che non si domandano nulla, inconsapevoli dell’approvazione, da parte della propria generazione, di un atteggiamento alla “è così che va il mondo”, derubati di una cultura della penna, nati in una penna che perde l’inchiostro, ma che si ricarica con la razzia dei beni effimeri e la preghiera per il superfluo attraverso la fede dettata dai signori feudali. “Prendere o lasciare”, “mangia questa minestra o salta dalla finestra”, “ti ho messo al mondo e dal mondo posso toglierti”, “sarò io a giudicare”. Nessun istinto di fuga, solo un gran trascinarsi gli uni sugli altri dentro una sovrappopolata cisterna, stesi nell’attesa di mangiare più di quel che occorre, e desiderosi di averne di più perché non si sa mai se risuccederà. Procreare, mangiare, aspettare, lamentarsi, pregare.
Ho molto da dire
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