Coppia dell’acido, Alexander Boettcher: sono innocente, le donne mi fanno schifo

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Coppia dell'acido, Alexander Boettcher, sono innocente, le donne mi fanno schifo«Non ho mai fatto male a nessuno, mi dissocio da quello che è successo, io sono innocente». La verità di Alexander Boettcher, sotto processo per una serie di aggressioni con l’acido, inizia ieri alle 13.43 e dura tre ore. Jeans e maglione blu, il ragazzo esce dalla gabbia degli imputati e per la prima volta da quando è stato arrestato risponde alle domande del pm Marcello Musso. Ma non lo guarda mai in faccia, neanche una volta. Per tutto l’interrogatorio si rivolge invece, seduttivo e pacato, soltanto ad Elena Bernante, presidente dell’XI corte penale che lo giudicherà. E questa immagine si scontra con quella che emerge da alcune chat depositate dall’accusa. Dove Alexander, ad un amico, scriveva ad esempio: «Le donne mi fanno schifo, sono una razza inferiore di babbuini al cospetto di Dio», raccontava una vita «pompata da steroidi» e anabolizzanti, e di minorenni prese con violenza in notti di sesso estremo e senza rispetto («Aveva la faccia che era una lacrima unica», alla fine di un rapporto). Eppure Alexander versione imputato «buono» risponde «mai stato una persona violenta», e dai reati «io sono lontano anni luce». In aula mostra i tabulati del telefonino, che secondo la difesa provano la sua estraneità agli agguati per cui l’amante Martina Levato e il complice Andrea Magnani, in un processo parallelo, sono già stati condannati. «Vede che non c’ero, da nessuna parte?», si ostina a dire Alex. Il suo cellulare non era in via Quarto Cagnino la notte del 2 novembre 2014, quando Stefano Savi fu drammaticamente investito dal lancio di acido. Non era in via Nino Bixio il 15, giorno dell’agguato a Giuliano Carparelli (che pure in aula l’aveva riconosciuto senza incertezze tra gli aggressori). E il suo telefono era «altrove» anche durante gli appostamenti successivi sotto casa di quella vittima che si è salvata per un soffio alle trappole tese una dopo l’altra, con crudele e maniacale ossessione. «Se anche il cellulare fosse rimasto a casa durante gli atti criminosi non sarebbe nessuna prova, anzi, potrebbe dimostrare che il livello di premeditazione è stato ancora più esasperato e diabolico, nella volontà di costruire da subito un alibi», taglia corto Paolo Tosoni, legale di Pietro Barbini, ex compagno di liceo di Martina che dallo sfregio con l’acido non è riuscito a scampare il 28 dicembre 2014. In via Carcano, quel giorno, mentre già urlava di dolore per il liquido che gli stava corrodendo metà volto, il ragazzo viene inseguito da Alexander Boettcher. Che viene trovato poco dopo a terra e con in mano un martello. «Ma io non l’ho toccato – è la difesa dell’imputato, diversa peraltro da quella contenuta in un memoriale consegnato in precedenza -. La mazzetta l’aveva l’uomo che mi ha buttato a terra (mai rintracciato, ndr ), non io». Dall’ultima fila, a quel punto, si è levata una voce. Quella del papà di Pietro, Gherardo Barbini, che era tra il pubblico, vicino al papà di Stefano, Alberto Savi, e a Lucia Annibali, l’avvocatessa marchigiana che venne sfregiata con l’acido in un agguato su commissione dell’ex fidanzato, ormai «amica» delle due famiglie. «Ma no, io ti ho visto con i miei occhi quel giorno lì», ha tuonato, irremovibile, Gherardo Barbini, che il 28 dicembre era presente durante l’aggressione al figlio e da subito ha testimoniato che Alexander prima incitava Martina a lanciare l’acido e poi inseguiva con il martello Pietro. «I testimoni sono stati suggestionati», è la versione del broker. Direbbero tutti il falso, insomma. Tranne lui.

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