Il 4 novembre 1925, in una Roma percorsa da tensioni politiche e da un regime sempre più consolidato, un uomo tentò di cambiare il corso della storia italiana. Tito Zaniboni, deputato socialista riformista, venne accusato di aver progettato un attentato contro Benito Mussolini. L’episodio, noto come “attentato Zaniboni”, è uno dei misteri più affascinanti e controversi del ventennio fascista: non solo per le modalità del presunto piano, ma soprattutto per le ambiguità che lo circondano, i possibili depistaggi e le ricadute politiche che ne derivarono. Questo evento non fu un semplice atto isolato di ribellione, ma un catalizzatore che accelerò la trasformazione del fascismo da movimento politico a dittatura totalitaria. A quasi un secolo di distanza, continua a suscitare dibattiti tra storici, che si interrogano sulla sua autenticità e sul ruolo che giocò nel consolidamento del potere mussoliniano.
Per comprendere appieno la portata di questo attentato, è necessario immergersi nel contesto storico dell’epoca, esplorare la figura di Zaniboni in modo dettagliato, analizzare le dinamiche dell’evento, valutare le ipotesi di manipolazione, esaminare le conseguenze immediate e a lungo termine, ripercorrere il processo giudiziario, confrontare le interpretazioni storiografiche e riflettere sul lascito che ha lasciato nella memoria collettiva italiana. Questo articolo, espanso per offrire una visione più approfondita, attinge a fonti archivistiche, testimonianze contemporanee e analisi moderne per delineare un quadro completo di uno snodo cruciale della storia del Novecento.
Il contesto storico: L’Italia nel 1925 tra crisi e consolidamento fascista
Nel 1925, l’Italia era un paese segnato da profonde divisioni sociali, economiche e politiche. La fine della Prima guerra mondiale aveva lasciato un’eredità di instabilità: inflazione galoppante, disoccupazione, scioperi e violenze squadriste avevano creato un terreno fertile per l’ascesa del fascismo. Benito Mussolini, nominato presidente del Consiglio nel 1922 dopo la Marcia su Roma, aveva progressivamente eroso le istituzioni liberali. L’Acerbo Law del 1923 aveva garantito ai fascisti una maggioranza schiacciante alle elezioni del 1924, ma l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924, rappresentò un momento di crisi profonda per il regime.
Matteotti, che aveva denunciato brogli elettorali e violenze fasciste in un discorso alla Camera, fu rapito e ucciso da una squadraccia guidata da Amerigo Dumini. L’omicidio scatenò un’ondata di indignazione: l’opposizione parlamentare, guidata da figure come Giovanni Amendola e Ivanoe Bonomi, optò per il “ritiro sull’Aventino”, abbandonando il Parlamento in segno di protesta. Questo gesto, tuttavia, si rivelò un errore strategico: isolò l’opposizione e permise a Mussolini di riprendere il controllo. Nel discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini assunse la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto, segnando l’inizio della fase dittatoriale.
Proprio in questo clima di repressione crescente – con la censura della stampa, l’arresto di oppositori e la creazione dell’OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) – nacque il caso Zaniboni. Il regime era alla ricerca di pretesti per giustificare ulteriori misure autoritarie. Le tensioni internazionali, come i rapporti con la Società delle Nazioni e le ambizioni coloniali, aggiungevano pressione interna. In questo scenario, un attentato sventato poteva trasformarsi in un’opportunità propagandistica perfetta, permettendo a Mussolini di presentarsi come vittima di un complotto antifascista e di accelerare la soppressione delle libertà residue.
Il 1925 fu un anno pivotal: il fascismo passò dalla fase “legalitaria” a quella totalitaria. Le “leggi fascistissime”, promulgate tra il novembre 1925 e il gennaio 1926, furono il culmine di questo processo. Esse inclusero la legge del 5 novembre 1925, che sciolse i partiti di opposizione e espulse i deputati aventiniani, e quella del 24 dicembre 1925, che attribuì a Mussolini il titolo di “Capo del Governo” con poteri assoluti. L’attentato Zaniboni, sventato il 4 novembre, fornì il pretesto immediato per queste riforme, dimostrando come eventi apparentemente isolati potessero essere strumentalizzati per ristrutturare lo Stato.
Chi era Tito Zaniboni: Da eroe di guerra a oppositore del regime
Tito Zaniboni (1883-1960) non era un rivoluzionario estremista, ma un uomo forgiato dalle esperienze della guerra e della politica riformista. Nato a Monzambano, in provincia di Mantova, da una famiglia modesta, Zaniboni si arruolò volontario nell’esercito italiano e combatté nella Prima guerra mondiale come ufficiale degli Alpini. Decorato con tre medaglie d’argento e una di bronzo al valor militare, divenne un eroe nazionale: partecipò alle battaglie sul fronte alpino, dimostrando coraggio e leadership. Dopo la guerra, entrò in politica aderendo al Partito Socialista Italiano (PSI), nella corrente riformista guidata da Filippo Turati e Giacomo Matteotti.
Eletto deputato nel 1921 per la circoscrizione di Udine-Belluno, Zaniboni si distinse per il suo impegno parlamentare. Fu tra i firmatari del “patto di pacificazione” tra socialisti e fascisti nell’agosto 1921, un tentativo fallito di ridurre le violenze squadriste. Tuttavia, l’ascesa di Mussolini lo spinse verso posizioni più radicali. L’assassinio di Matteotti, di cui era amico personale, lo sconvolse profondamente: Zaniboni partecipò attivamente alle ricerche del corpo del deputato e denunciò pubblicamente il regime. Espulso dal PSI unitario per le sue posizioni moderate, si avvicinò alla massoneria (era affiliato alla loggia di Palazzo Giustiniani) e a circoli antifascisti, inclusi contatti con esuli come Gaetano Salvemini.
La figura di Zaniboni rimane ambigua: per alcuni storici, come Mimmo Franzinelli nel suo “I tentacoli dell’OVRA”, era un idealista ingenuo, pronto al sacrificio personale per fermare la deriva autoritaria. Altri, come Paolo Neglie in “Doveva morire? L’attentato di Zaniboni a Mussolini: fra verità e menzogne”, lo descrivono come manipolabile, influenzato da informatori e spie del regime. Durante la detenzione, Zaniboni scrisse lettere a Mussolini nel 1935 e 1939, ringraziandolo per l’aiuto economico alla figlia Bruna, che poté completare gli studi universitari. Questo aspetto evidenzia una personalità complessa: un oppositore che, sotto pressione, mostrò segni di sottomissione.
Zaniboni aveva legami con il Friuli, dove frequentava l’osteria di Lucia Pauluzzi a Buja, un covo di antifascisti. Qui, secondo Dino Barattin in “Tito Zaniboni e il complotto friulano per uccidere Mussolini”, reclutò complici come Ferruccio Nicoloso e Angelo Ursella. Ricevette finanziamenti da Tomáš Masaryk, presidente cecoslovacco, e dal generale Luigi Capello, un massone antifascista. La sua biografia post-fascista è altrettanto interessante: liberato nel 1943, rifiutò incarichi nel governo Badoglio ma divenne alto commissario per l’epurazione, suscitando controversie per il suo passato ambiguo. Dal 1950 al 1960 presiedette l’UNUCI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia), morendo a Roma nel 1960.
La dinamica dell’attentato: Un piano velleitario e un arresto tempestivo
L’attentato fu pianificato per il 4 novembre 1925, giorno delle celebrazioni della Vittoria nella Prima guerra mondiale. Mussolini avrebbe pronunciato un discorso dal balcone di Palazzo Chigi, esponendosi a un tiro facile. Zaniboni prese una stanza all’Hotel Dragoni (o Continental, secondo alcune fonti), situato di fronte al palazzo, armato di un fucile di precisione Steyr-Mannlicher M1895, un’arma austriaca con mirino telescopico. Il piano prevedeva un colpo singolo, seguito da una fuga in auto (una Lancia Lambda) e un’azione di piazza con circa 200 uomini non armati per creare confusione.
Tuttavia, l’operazione era segnata da ingenuità: Zaniboni non mantenne la segretezza, confidandosi con Carlo Quaglia, un ex amico che si rivelò un delatore pagato dalla polizia. Secondo le testimonianze processuali, Quaglia informò le autorità, permettendo alla questura di Roma, guidata da Giuseppe Dosi, di monitorare ogni mossa. La polizia irruppe nella stanza alle 8:30 del mattino, trovando il fucile scarico nell’armadio. Zaniboni fu arrestato tre ore prima dell’apparizione di Mussolini, insieme a Quaglia e, successivamente, al generale Capello, accusato di aver fornito fondi e supporto logistico.
Dettagli emersi dagli archivi, come quelli citati da Franzinelli, rivelano che Zaniboni aveva contattato massoni e esuli, ottenendo 10.000 lire dalla Banca Agricola di Cividale. Un incontro chiave avvenne il 28 ottobre al Passo Monte Croce Carnico, con complici friulani. La stampa fascista, come “Il Popolo d’Italia”, esaltò l’arresto come prova dell’efficienza del regime, mentre giornali esteri come “The New York Times” lo descrissero come sospetto.
Un complotto vero o costruito? Le ombre della manipolazione fascista
Gli storici si interrogano da decenni se l’attentato fosse un piano reale o una messinscena orchestrata dal regime. I dubbi nascono dalla tempestività dell’intervento poliziesco: la polizia sapeva tutto in anticipo, grazie a informatori come Quaglia e Marisa Romano (una spia legata all’OVRA). Mussolini stesso, in un discorso, affermò di essere stato informato da Roberto Farinacci, suggerendo che il regime avesse lasciato procedere il piano per poi smascherarlo.
Paolo Neglie, nel suo articolo, analizza prove archivistiche che indicano una manipolazione: Zaniboni era sorvegliato da mesi, e il regime facilitò l’acquisto dell’arma per amplificare l’evento. Gaetano Salvemini e Carlo Tresca, esuli antifascisti, lo definirono un “segreto di Pulcinella”, un complotto fittizio per giustificare repressioni. Tresca scrisse una commedia satirica, “L’Attentato a Mussolini ovvero il segreto di Pulcinella”, denunciando la farsa.
Dino Barattin sottolinea il ruolo del complotto friulano: a Buja, antifascisti ingenui furono usati come pedine. Le condanne sproporzionate – 30 anni a Ursella, latitante – supportano l’ipotesi di un processo esemplare. Tuttavia, Zaniboni confessò pienamente al processo: “Era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo”. Questo ammissione rende l’attentato “reale” per alcuni, come Renzo De Felice in “Mussolini il fascista”, ma strumentalizzato dal regime.
Studi recenti, come quelli di Alessandra Tarquini, inseriscono l’evento in una serie di attentati (Gibson, Lucetti, Zamboni nel 1926), usati per creare uno “stato di emergenza” e consolidare il potere. Mussolini capitalizzò questi eventi per presentarsi come “uomo della provvidenza”, protetto dal destino.
Le conseguenze politiche: Dal pretesto alla dittatura
L’attentato fornì al fascismo l’occasione ideale per introdurre le “leggi fascistissime”. Il 5 novembre 1925, il giorno dopo l’arresto, fu approvata la legge che sciolse i partiti di opposizione, espulse i deputati aventiniani e soppresse la libertà di stampa. Seguirono la legge del 24 dicembre 1925, che rese Mussolini “Capo del Governo” responsabile solo verso il Re, e quella del 31 gennaio 1926, che gli attribuì poteri legislativi straordinari.
Queste misure sancirono la fine della democrazia liberale: il Partito Nazionale Fascista divenne l’unico legale, la massoneria fu sciolta, e l’OVRA intensificò la sorveglianza. L’episodio accelerò la repressione: migliaia di oppositori furono arrestati o confinati. Senza sparare un colpo, Zaniboni contribuì a cancellare ogni opposizione legale, trasformando l’Italia in uno Stato totalitario.
Il processo e la condanna: Un tribunale per l’esempio
Il processo iniziò l’11 aprile 1927 davanti al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, creato appositamente per i reati politici. Zaniboni, difeso da avvocati come Giuseppe Cassinelli (in contatto con la polizia), rivendicò le sue azioni: “Se la polizia fosse arrivata alle 12:30, avrei compiuto il mio dovere”. Ammise finanziamenti da Masaryk e legami con Capello.
La sentenza fu durissima: 30 anni per Zaniboni e Capello, scontati nel penitenziario di Santo Stefano. Capello, che negò ogni coinvolgimento, definì Zaniboni “un energumeno”. I complici friulani ricevettero pene minori, ma l’esemplarità del verdetto intimidì l’opposizione. Zaniboni fu liberato nel 1943 e riabilitato, ma il suo nome rimase legato all’episodio.
Le interpretazioni storiografiche: Tra eroismo e strumentalizzazione
La storiografia è divisa. De Felice vede in Zaniboni un oppositore sincero, ma il piano fragile permise a Mussolini di sfruttarlo. Franzinelli e Neglie enfatizzano la manipolazione: l’attentato fu “pilotato” per propaganda. Tarquini, in “Mussolini’s Four Would-be Assassins”, lo inserisce in una strategia di “politica d’emergenza” che consolidò il fascismo.
Alcuni, come Salvemini, lo considerano una “montatura poliziesca”. Barattin evidenzia il coraggio dei friulani, nonostante l’ingenuità. In sintesi, l’evento illustra come Mussolini trasformasse minacce in opportunità.
Il lascito storico: Un enigma tra potere e propaganda
L’attentato Zaniboni rappresenta uno snodo cruciale per comprendere la transizione al totalitarismo. È un caso in cui storia e mistero si intrecciano: un piano concreto, ma avvolto da ombre di manipolazioni. Ci ricorda come gli eventi politici vadano letti nei meccanismi di potere e propaganda. Oggi, in un’epoca di revisionismi, invita a riflettere sui pericoli dell’autoritarismo.
Conclusione
Il tentato attentato di Tito Zaniboni resta uno degli enigmi più significativi del ventennio fascista. Al di là delle responsabilità individuali, segnò un punto di non ritorno: un episodio sfruttato per consolidare la dittatura. A distanza di un secolo, continua a stimolare la storiografia, ricordandoci la labilità tra complotto reale e costruzione politica.
Fonti e riferimenti
- Enciclopedia Treccani – Voce: Tito Zaniboni
- Wikipedia (IT) – Tito Zaniboni
- Wikipedia (EN) – Tito Zaniboni
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